“La misura dell’intelligenza è la capacità di cambiare”
Albert Einstein

Si parla tanto di leggerezza soprattutto in relazione al suo opposto, ossia la pesantezza.
In un mondo appesantito da conflitti pubblici e privati, da scorie ed inquinamento, da afflizioni di varia natura e da abitanti sempre più sovrappeso, la leggerezza del corpo, della mente e delle relazioni è quanto di più auspicabile per il presente e il futuro a venire.
Qui parlo di quella forma di leggerezza che non ha nulla a che fare con la superficialità, la banalità o l’ironia, sinonimi di noncuranza, incuria, spregiudicatezza. No, mi sto riferendo alla raffinata e acuta forma di intelligenza che la leggerezza del vivere “in punta di piedi” rappresenta.
Il vocabolo intelligenza deriva dal latino intelligere (capire, comprendere) ed è composta dal verbo legere (leggere) preceduto dall’avverbio intus (dentro).
Quindi: sapere andare oltre l’apparenza e comprendere ciò che esiste in profondità, oltre il visibile, nelle situazioni, nelle relazioni, in noi stessi. Se non ci liberiamo di orpelli, credenze, abitudini stantie, dagli eccessi vari (di cibo, di chili in più, di bisogni e brama di ogni genere) non è per niente facile capire (intelligere) e andare oltre; oltre le apparenze, i bisogni primari, oltre il banale e ovvio tram tram.

L’intelligenza ha a che fare con la consapevolezza e la dimestichezza; la leggerezza (nel vero senso del suo intendere) si libera del superfluo, trascende i limiti, i bisogni aleatori e dona consapevolezza. Piena.
La leggerezza permette di volare, anche metaforicamente: Buddha sprona a lasciare andare tutto ciò che pesa per poterlo fare.

Questo intro è doveroso per sbarazzare il campo da incomprensioni semantiche e intendimenti vari.
Ora parliamo e capiamo la stessa lingua per scorgere il panorama realistico e utile del leggero vivere, nutrirsi, pensare, agire.

Ricordo e ringrazio i miei anni trascorsi a studiare prima, e a lavorare nel team manageriale di aziende farmaceutiche poi. Anche grazie a queste esperienze ho intuito il valore della leggerezza.
Allora ero tutto all’infuori di questo aulico concetto. Seria e determinata vivevo e praticavo con rigore (eccessivo, credetemi!) i miei compiti ed impegni. Ogni atto doveva portarmi allo scopo per me imperativo: l’eccellenza. Va da sé che questa cima, l’eccellenza, non si raggiunge così; ma io non lo sapevo e non mi permettevo altro che l’obiettivo finale; e dovevo essere la migliore.
Ho ottenuto buoni risultati, certo: metodo, rigore, e costanza premiamo sempre. Ma la leadership, il superamento dei limiti, l’evoluzione mentale e personale sono tutt’altra faccenda.
Ai tempi la leggerezza mi era aliena e, spesso, mi sono sentita dire:” lasciati andare un po’; sii più leggera”, che qualche collega di allora, romano, riassumeva in “smollate”.

Io, quasi, mi arrabbiavo!

Ora lo capisco. Avevano ragione loro. Ma si cresce anche così; per tentativi, per esperienze e fallimenti.
Basta arrivare.
A me, personalmente, è servito molto il rapporto e confronto con i pazienti e gli studenti di tutte le età, nel mio lavoro dedicato all’educazione alimentare. Mi sono vista “rispecchiata” in loro e, aiutandoli, mi sono aiutata.
Provo gratitudine verso ognuno di loro. Crescere insieme unisce, fortifica e fa sorgere un clima di fiducia e continuità.
Sono migliore grazie al loro divenire migliori.
Uno scambio alla pari. Il massimo!

Leggeri e sgombri da conformismi dunque, obblighi più mentali che necessari, e dalle aspettative proprie e altrui.
Si, ma questo a cosa serve? Intendo, a cosa serve nel corpo o come strumento per raggiungere i risultati di forma fisica desiderata come dimagrimento e leggerezza quindi riduzione del peso e dei centimetri in eccesso?
Qui torna utile il pensiero rigoroso della scienza che, manco a dirlo, dice la sua e “bacchetta” ogni velleità filosofica ed esperienziale.
A rigor di logica stare leggeri (in termini nutrizionali) significa mangiare poco.

Lo dico a tutta voce: ”NON E’ VERO!”

O, meglio, non è sempre vero.

Esistono due grandi categorie di persone: i “grandi mangiatori” e i “parchi”.
I primi considerano il cibo come una vera goduria, un atto estatico votato al soddisfacimento di quel desiderio di appagamento che si estrinseca nella buona tavola, ricca, sapida, gioviale e accogliente. Italiana direi.
I secondi, morigerati e accorti, non percepiscono l’apoteosi della pienezza e abbondanza alimentare che, anzi, vivono come disturbo scaturito dalla saturazione, dalla mancanza di “spazio gastrico” che appesantisce e annichilisce pensieri e azioni.
Esistono poi sotto-categorie nel mezzo dei due gruppi.
Chi ha ragione?
Nessuno e tutti!
Nessuno è uguale a nessuno. E nessuno può dichiarare purezza di pensiero perché è influenzato dal proprio personale motivo e dalla propria esperienza.
Quindi diamo voce alla scienza. Di solito imparziale.
Tecnicamente mangiare meno è auspicabile.
Fin dall’antichità le tradizioni culturali e religiose hanno raccomandato di mangiare poco per mantenere la salute: dagli Egizi agli ebrei, dagli induisti ai buddisti, da Ippocrate alla scuola medica salernitana, dalla medicina tradizionale cinese all’ayurveda e anche alla nostra medicina. Da più di cento anni sappiamo che se agli animali da laboratorio diamo meno da mangiare vivono più a lungo e si ammalano meno di malattie croniche.
La prima pubblicazione sul tema risale al 1909. Decine di studi sui roditori confermano quanto dichiarato.
Nel libro di F. Berrino (medico epidemiologico e direttore del Dipartimento di Medicina preventiva dell’Istituto nazionale dei tumori di Milano) e D. Lumera (direttore della Fondazione My Life Design) “La via della leggerezza” si legge: ”anche se gli animali sono trattati con sostanze cancerogene, se mangiano poco non si ammalano o riducono molto il loro rischio. In particolare è una questione di rapporto tra calorie introdotte con il cibo e calorie spese con l’attività fisica”.
Cento anno dopo, una pubblicazione del 2009, che ha analizzato scimmie antropomorfe, informa che quelle sottoposte a restrizione calorica hanno dimostrato minore propensione a malattie croniche, un dimezzamento dei casi di cancro e di infarto e la scomparsa del diabete; tutti elementi avversi presenti nel gruppo trattato con più cibo.
A queste ricerche ne sono seguite numerose altre anche direttamente sugli umani.
Tutte, proprio tutte, confermano il dato, ormai acclarato, che mangiamo troppo e che ridurre (anche di poco) le dosi giornaliere offre una vasta gamma di vantaggi fisici e mentali, odierni e prospettici. Ne parlavo giusto la settimana scorsa nell’ultimo articolo. Ricordate?
Mettiamoci il cuore in pace e accettiamo l’evidenza. LA SCIENZA, GLI STUDI, GLI ESPERIMENTI dicono IL VERO: mangiare troppo fa male!

Peccato che i suddetti studi non specificano chiaramente cosa significa quel “troppo”; inoltre si generalizza e non si personalizza, caso per caso, l’incidenza dell’abbondanza alimentare sulla scorta dello stile di vita, dell’attività motoria, della profondità di pensiero (c’entra anche quello) e della scelta delle associazioni alimentari e del momento dell’assunzione del cibo. Tanti elementi “scordati” o poco approfonditi.
Un po’ come dire: ”mangia poco (poco per chi?) e accontentati della minuscola razione che hai nel piatto. Fai così perché ti fa bene. Anzi, ogni tanto salta pure il pasto”.
Non lo accettano i bambini; figuriamoci gli adulti! Per accettare, prima è bene capire, interiorizzare e scovare, per ogni testa, come procedere in quella direzione.

E poi come la mettiamo con i “buoni mangiatori” ossia coloro che del cibo fanno scorta di energia ma anche di piacere, gioia e convivialità?
Cosa dire e come comportarsi con coloro che “consumano la vita” perché perennemente attivi nella mente, nel corpo e nell’azione di crescere?

Accetto e onoro i risultati della scienza (nasco e sono cartesiana) ma sono chiamata a ridimensionare per “cucire su misura” il rigore della scienza con la vita e le necessità squisitamente personali di ciascuno.

Leggerezza per me è leggiadria, qualcosa che ricorda il fluttuare lento ed elegante di una piuma. Se influenzo e impongo un ritmo diverso alla sua danza, questa prenderà un’altra direzione. Sicuri che sia quella migliore?

A voi l’ardua sentenza e a me il piacere di andare oltre e scrivere ancora di leggerezza, “danzando” tra le verità scientifiche e il desiderio, legittimo, di sperimentare il piacere leggero e sopraffino di un buon piatto. Qualcuno deve pur pensare ai “buoni mangiatori” e a coloro che, ogni tanto, trovano legittimo lasciarsi andare un po’!
Qualcuno disse:”la vita è un banchetto. Va e serviti”.
Ma il bis è previsto?
Scherzi a parte, state con me.
Nel prossimo appuntamento approfondisco questi aspetti e, ne sono certa, che tu sia una buona forchetta o meno troverai la risposta che cerchi.
E sarà leggera.
Non mancate. Io ci sarò.
Grazie